Monte Castello (Capraia Isola) Prime considerazioni sugli antichi insediamenti del Monte Castello. (Sopralluogo del 3 settembre 2017) di Angiolo Naldi

Sono lieto di accogliere come collaboratore Angiolo Naldi che da molti anni ha pubblicato numerosi testi che illustrano storia e bellezze delle isole minori dell’Arcipelago Toscano.

Monte Castello

Il monte Castello – Carta del 1852

L’area cacuminale si presenta modellata in ampi terrazzamenti che circondano quasi completamente la cima del monte. Robusti muri a secco delimitano le diverse aree, ma non è da escludere che la naturale geomorfologia abbia favorito la realizzazione delle superfici pianeggianti. Ciascuna di queste zone, esplorata parzialmente ed esclusivamente con indagine di superficie, mostra abbondanza di materiali di terracotta, quasi tutti frammentari, ma con la presenza di interessanti manufatti che potrebbero rivelarsi molto utili per le datazioni delle frequentazioni del sito. È infatti probabile che il monte sia stato abitato o visitato in diversi periodi, non necessariamente continuativi, della storia.

Frammenti di ossidiana

Frammenti di ossidiana (Foto M.Ugolini)

Da questo punto di vista di particolare interesse risulta il ritrovamento di due frammenti di ossidiana (scarti di lavorazione del materiale), che consentono di ipotizzare una frequentazione di epoca neolitica dell’area. Un terzo frammento di questo prezioso materiale fu da noi recuperato, anni or sono, lungo il sentiero sottostante, che collega al Monte Le Penne, ma è presumibile che anch’esso provenga, per dilavamento, dagli ambienti sovrastanti. Anche una piccola ansa, appartenuta ad un elemento vascolare non più direttamente identificabile, potrebbe essere attribuita al Neolitico, mentre, almeno per le nostre conoscenze, risulta complicata ed azzardata una datazione degli altri frammenti in terracotta. Da rilevare che mentre in passato pressoché tutti i ritrovamenti di ossidiana erano avvenuti nella piana dello Zenobito, a partire dalla metà degli anni ’90, seppur con reperimenti puntuali, e mai ascrivili ad un ripostiglio, sono stati effettuati in varie zone della parte centrale e meridionale dell’isola (ritrovamenti effettuati da A. Naldi e M. Ugolini al Piano di Santo Stefano, presso l’Acciatore, sul monte Forcone e altrove).

Frammento di macinello in pietra verde

Frammento di macinello in pietro verde (Foto M.Ugolini)

Tra i materiali ritrovati sul Monte Castello di maggiore interesse si includono un macinello in pietra verde (materiale proveniente o dal nord della Corsica, o dall’Elba o, meno probabilmente, dalla Gorgona, ove esistono affioramenti ofiolitici), una fusaiola (o fuseruola) ed un rocchetto, entrambe in terracotta. Ritrovamenti simili sono documentati per il Monte Castello all’isola d’Elba (M. Zecchini, 2001), con datazione 300 – 260 a. C. e attribuiti alla civiltà etrusca. Pur essendo vero che soprattutto le fusaiole siano state prodotte invariabilmente con quella morfologia sino alla prima età del ferro (potevano variare i materiali), è più verosimile ipotizzare una datazione più antica, che associata alla presenza di ossidiana potrebbe attestarsi proprio al Neolitico o all’Eneolitico. Infatti, gli insediamenti etruschi dovrebbero essere stati limitati a presidi militari, presso i quali è assai improbabile ritrovamenti di materiali di uso quotidiano “familiare”; mentre le colonizzazioni romane sono generalmente attestate o al Piano o in corrispondenza della domus al porto. Anche presidi più tardi, di epoca medievale e rinascimentale (questi ultimi anche documentati; comunicazione personale dell’ing. Moresco), sono attribuibili esclusivamente a presenze di militari o guarnigioni di vedetta. Anche in questo caso è molto difficile che tra i reperti associati possano esserci strumenti di vita quotidiana (fusaiole e rocchetti erano in genere utilizzati per la filatura dei tessuti).

FRammenti in terracotta con ansa rocchetto e macinello in pierta verde

Frammenti in terracotta con ansa, rocchetto, e macinello in pietra verde (FFoto M.Ugolini)

Il sito del Monte Castello risulterebbe quindi un’ulteriore dimostrazione dell’importante colonizzazione preistorica dell’isola, per la quale occorrerebbe indagare con maggiore attenzione alcuni siti come “l’Isola”, le pendici del Monte Campanile, il sito del Monte Castelluccio e altre località, dove è presumibile una concentrazione antropica di epoca antica. Anzi, non è improprio azzardare che vista la sua collocazione (nel punto più alto e più panoramico dell’isola) e per la quantità di materiali presenti il Monte Castello possa essere considerato il luogo di maggiore concentrazione umana, che evolvendosi nel corso del tempo, dall’Eneolitico e per tutta la fase preistorica successiva, abbia costituito un castellare in tutto simile a quelli studiati all’Elba.

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Fuseruola, rocchetto, e frammento macinello (Foto M. Ugolini)

Un’ultima considerazione sulla presenza di ossidiana sull’isola. Pare appurato che almeno la maggior parte dei ritrovamenti effettuati, l’ossidiana provenga, attraverso la Corsica, dal Monte Arci, in Sardegna. Non è quindi da escludere che Capraia, vista la relativa vicinanza alla Corsica, sia stato uno dei più importanti siti nel grande circuito di diffusione di questo materiale dalla Sardegna all’Arcipelago Toscano, all’area continentale.

Capraia Isola, 3 settembre 2017

Angiolo Naldi

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Un ricordo di Padre Nino

Il 13 maggio si é spento padre Nino.

Foto Nino copy

Una grande perdita per molti capraiesi e non, che ne hanno apprezzato, durante il suo soggiorno a Capraia come parroco, le sue straordinarie doti di spiritualità e di profonda umanità. Rimarrà nella storia dell’isola come il simbolo di ciò che, a volte, gli uomini impediscono di realizzare: il sogno di un eremo, centro di spiritualità, nella casa in rovina nella baia della Mortola.

Isola di Capraia: La Mortola

La Mortola: un sogno non realizzato (Foto F. Guidi)

Gaetano (Nino) Barile è nato a Torrazza Coste (PV) il 5 marzo 1951. Prima di entrare in monastero ha conseguito la laurea in Lettere Moderne presso l’Università Cattolica di Milano. Ha avuto diverse esperienze lavorative, tra cui l’insegnamento in un Liceo salesiano di Asti. È entrato a Casamari (FR) nel 1983. È stato ordinato sacerdote nella medesima Abbazia il 26 dicembre 1992. Dal 1994, con i suoi confratelli padre Marco e Francesco, ha iniziato un percorso alla ricerca di un luogo dove poter vivere una vita più ritirata e più radicata nel silenzio e nella preghiera. Nel 2002 arriva  a Capraia e, un anno dopo, il Vescovo di Livorno Mons. Diego Coletti lo immette nella carica di parrocco dell’isola durante una solenne celebrazione.  A Capraia resta fino al 2007. Da quell’anno fino alla sua morte, p. Nino ha vissuto in un piccolo eremo in Casentino, in provincia di Arezzo e in Diocesi di Fiesole. Il luogo vicino a cui si trova l’eremo di chiama Borgo alla Collina, paese nel cui cimitero ora il suo corpo riposa.

Di lui un ricordo di Folco Giusti:

Quando, inattesi, piombarono in Capraia – lui, Nino, il maestro monaco e sacerdote, Marco, il discepolo novizio, Francesco, il converso – sembravano usciti non dalla nave, ma dalle brume del tempo, da uno dei tanti inestricabili macchioni che coprono i colli di Capraia, quasi fossero gli ultimi sopravvissuti dei “viri lucifugi” che, secondo Claudio Rutilio Namaziano, si erano ritirati a vivere in solitudine, penitenza e preghiera nella Capraia del quinto secolo dopo Cristo.  Ma se i primi monaci cristiani si erano rifugiati a Capraia pronti “per paura del male a far male a se stessi”, a vivere, cioè, di misere cose pur di scappare dal mondo, loro – Nino, Francesco e Marco – erano lì pronti sì a vivere di misere cose, ma solo per amore del bene e per il bene dell’umanità tutta, quella capraiese in primis.
E fecero subito effetto.  Vestiti di semplici cocolle grigie, allampanati come patissero la fame da sempre, senza un quattrino nemmeno per scaldare le quattro stanze della misera canonica dove avevano trovato rifugio, seppero subito attrarre a sé e in… chiesa.  Quasi un miracolo, dopo tanti anni di Sante Messe sbrigative, di altrettanto sbrigative prediche e di cerimonie più folcloristiche che religiose.
Benedetto il vescovo di Livorno di allora che, nel sostenere la loro impresa, aveva finalmente capito come Capraia non potesse essere abbandonata nelle mani incerte di preti volanti, messi lì in prestito e incapaci di rivestire un ruolo di riferimento per il popolo dell’isola.
Nino, in particolare, con la sua amabilità, ma soprattutto con la sua profondità di fede, divenne presto un prezioso missionario dell’amore di Cristo: non c’era anima in pena che non venisse ascoltata e ristorata; non c’era bambino che non ricevesse da lui una carezza e, finalmente, un insegnamento per un corretto approccio ad una vita cristiana.  Aiutato da Marco, in breve, riuscì a far tornare all’altare i chierichetti, i bambini e le bambine a cantare, i capraiesi e i turisti, in numero mai visto prima, a partecipare alle Sante Messe, rapiti dalle sue intense omelie.  Nonostante una malattia tra le più serie accettata come un dono, vissuta e finalmente vinta non senza molto soffrire, resistette e operò senza risparmiarsi.  Riuscì persino a creare un giornale, “L’isola di Capraia.  Notiziario della Parrocchia del S. Cuore di Gesù e S. Nicola”, per dar voce alla comunità e per dar vigore ad un gruppo di laici che presto si era coagulato attorno alla sua piccola comunità monastica.
E fu bello.  Troppo bello per durare.  Dopo soli tre anni, frustrato dal vedere contrastato il sogno di crearsi un eremo in uno degli edifici abbandonati dal carcere, un’isola nell’isola dove poter mettere in atto compiutamente una vita monastica, Nino gettò la spugna e, con i suoi, lasciò Capraia.  L’egoismo di pochi aveva vinto.  Capraia, persa un’opportunità preziosa, tornò all’incuria della Curia, ai preti volanti, alle Sante Messe quasi deserte, alle cerimonie più folcloristiche che religiose.
Fu rabbia da parte mia: nel tentativo di strappargli un ripensamento, ingenerosamente lo accusai di egoismo, lo chiamai in contraddizione con il suo sacerdozio, ma… ingenerosamente.  Sapevo bene come la sua vocazione monastica pretendesse quello che, in cambio della sua opera di parroco, era nei suoi sogni: un minimo spazio sì, ma riparato almeno dal chiasso del pur piccolo mondo di Capraia.
Negli anni, sono rimasto in contatto con lui e con Marco, ho seguito con affetto il loro pellegrinare in cerca dell’eremo adatto.  Finalmente trovato, sembrava che per Nino fosse tutto bene compiuto.
Ma… l’umana natura era in agguato.  Un altro terribile male, anche questo accettato e vissuto come un dono, lo ha presto stremato e ucciso.  Con Nino, ci ha tolto un fratello, un monaco e un sacerdote prezioso.
Come molti, anch’io ho pregato per lui, convinto come sono che nemmeno il più piccolo segno di devozione, venuto che fosse anche da parte di un indegno, passi inosservato in Cielo.  Ma il Cielo, questa volta, non ha dato riscontro.  I nostri disegni non sono quelli del Signore: lo so.  Ma… come non chiedersi perché i Suoi disegni sono diversi dai nostri anche quando dovrebbero coincidere?
Una domanda che non ha risposta se non nella fede.  Nino non è morto: vive in cielo con il Cristo risorto e continua la sua missione.  Ora è più libero e forte: prega e intercede per noi.  Prega e intercede senz’altro per la sua, la nostra, mai dimenticata e sempre amata Capraia.

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Il 9 maggio si è spento a Genova Edgardo “Dino” Billia.267589_10150236415367106_5874805_n

Nato nel 1943 a Finale Ligure da madre capraiese – una Paoli – è sempre vissuto a Genova dove si è laureato in ingegneria elettrotecnica. Entrato nella Società Ansaldo ha lavorato alla progettazione ed installazione di centrali elettriche. Apprezzato per le sue capacità, veniva inviato in giro per  il mondo ed in uno dei suoi soggiorni di lavoro in Messico fu coinvolto in un incidente stradale che gli lasciò gravi conseguenze. Era innamorato di Capraia e, anche se costretto su una sedia a rotelle, cercava quando poteva di farsi portare a Capraia. Molti lo ricordano quando alcuni anni fa si fece portare dalla barca di Enzino a fare il bagno in una delle cale dell’isola. Un vero capraiese.

Ecco come lo ricorda l’amico Folco Giusti:

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In memoria di Edgardo “Dino” Billia

“Ha finito di soffrire”.  Questa frase consolatoria che siamo soliti scambiarci quando muore un nostro caro che ha a lungo tribolato nella malattia e nel dolore, oggi, non mi consola affatto.  No, non mi consola: mondo infame!

Dino è morto, ma non voleva morire: ne sono certo.  Nonostante i suoi quaranta e forse più anni di immobilità, di sofferenze lancinanti, di umiliazioni, è riuscito a conservare fin quasi all’ultimo la sua voglia di godere del poco che le sue condizioni ancora potevano consentirgli: semplicemente vivere, continuare a gustare un buon piatto, continuare a provare qualche emozione, continuare ad avere attorno a sé l’affetto degli amici, continuare a viaggiare con la fantasia verso Capraia, la sua isola tanto amata.  Un misero compenso, ma… a lui bastava.

“Come stai?”  Domanda d’obbligo, quando lo si chiamava al telefono e d’obbligo era la sua risposta: “Male, grazie, come sempre, ma… parliamo d’altro”.  Quante volte questo rito e quante volte, invece di lasciarti la bocca amara, la telefonata finiva con il sorriso sulle labbra: mai un lamento, mai un imprecazione verso la sorte o verso il Cielo.  Solo serenità che, di riflesso, invadeva anche chi con lui parlava e che, come per grazia, era portato inevitabilmente a sentire ridicole le proprie eventuali pene.  Un balsamo, il caro Dino, un balsamo per noi, non noi per lui.  Lui avrà anche finito di soffrire, ma noi no e non ci sarà più il suo balsamo a darci forza, a darci un sorriso.

Non ho mai affrontato con lui il problema dell’Aldilà: mi sembrava infame farlo.  Non ci credessi, ora ci crederei.  Come non sperare per lui una ricompensa, una nuova vita, nuove gambe e braccia per una nuotata in una cala di Capraia, per una scalata al Semaforo?  Forse il Paradiso non è questo, ma so che lui così l’avrebbe voluto e prego Dio che così, almeno per un po’, a lui lo conceda.

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Coltivazione di viti, olivi, mandorli, e capperi a Capraia tra Seicento e Settecento

Già dal 1539 il Banco di San Giorgio cercò di sviluppare l’agricoltura in Corsica affinché l’isola potesse produrre sia quanto era necessario al sostentamento degli abitanti, sia del grano per il rifornimento della città di Genova. Questa politica continuò anche dopo il 1562 quando la Repubblica di Genova prese possesso della Corsica e di Capraia.

Nella prima metà del Cinquecento, la produzione agricola di Capraia era basata essenzialmente sulla coltivazione della vite e la produzione di vino: nel 1504, l’isola produceva 530 botti di vino pari a 3140 ettolitri. Nel 1540 scese a 180 botti pari a 1067 ettolitri a causa probabilmente dei corsari barbareschi i quali, nel corso delle loro incursioni a terra, erano soliti distruggere le vigne. Il vino veniva in gran parte venduto in terraferma, Genova e Maremma, in cambio di grano e orzo la cui produzione nell’isola era molto scarsa e non sufficiente per i bisogni locali.[1] Questa situazione si mantenne inalterata fino a tutto il Seicento, anche se la produzione di vino calò ulteriormente perché gli uomini si dedicarono sempre di più alla pesca e alla navigazione con le loro gondole, mentre la coltivazione dei terreni divenne compito precipuo delle donne. Sovente, i Capraiesi furono costretti a ricorrere a Genova per chiedere invio di grano, impegnandosi a pagarlo con il ricavato della vendita del vino dell’anno successivo. In molti casi, tuttavia, Genova si trovo costretta a rinunciare al risarcimento promesso. Per ovviare in parte a questa situazione i Magistrati di Corsica[2] cercarono di incentivare nell’isola altre colture: olivo, mandorlo, cappero, e ciliegio.

Su uno di questi tentativi ci è rimasta un’interessante relazione del Commissario e Capitano di Capraia, Nicolò Raggio, scritta nell’aprile del 1626. La relazione fornisce una chiara descrizione del modo in cui i Capraiesi ricavavano, in luoghi spesso scoscesi, i piccoli appezzamenti di terreno da coltivare, detti «piazzole», piazzole che ancora oggi si possono scorgere sparse per l’isola, anche se ormai invase dalla macchia mediterranea che lascia intravedere solo i muri a secco che le delimitano. Per sfruttare la poca terra disponibile i Capraiesi avevano diviso l’isola in vallate che venivano coltivate ciclicamente e che venivano liberate dalla macchia mediterranea ricorrendo a degli incendi controllati. Questa tradizione si è mantenuta nell’isola fino agli anni ’50 dello scorso secolo, per facilitare la ricrescita dell’erba e per consentire, così, il pascolo dei pochi capi di bestiame lasciati allo stato brado all’interno di aree ben delimitate, dette «chiudende», isolate rispetto alle vigne, e ai terreni coltivati.

Ma lasciamo la parola a Niccolò Raggio:

«Serenissimo et Eccellentissimi Signori

Con la loro de 10 del passato ho anche ricevuto le amandole mandate insieme con li maggioli de cappari, e subito feci radunare questi huomini, e li feci intendere come per suo beneficio VV.SSS. Sererenissime haviano visto volentieri che si introducessero in quest’Isola simili frutti; doppo diverse cose che furono dette si concluse più per agradire la buona volontà di VV.SS. Serenissime che per altro che si dovessero seminare, nel resto tutti furono di parere che era opera gettata al vento poiché di già se ne è fatto l’esperienza non tanto di amandole quanto di noci, castagne, cerase, et altri frutti, et ultimamente anche di ordine di VV.SSS. Serenissime di olive, e niente è mai potuto riuscire. La causa è che non vi è terreno solo sassi, et questa Isola è soggetta assai a tutti li venti che tutto il giorno la tormentano hora per un verso et hora per l’altro; e Dio voglia che quest’anno non habbino di già vendemiato poiché da tre giorni in quà è stato un gregale tanto terribile che ha brusato tutta la vigna, a segno che li alberi non vi ponno crescere e questo lo stimo per vero stante che in tutto questo loco non si trova albero alcuno ne domestico ne salvatico che sia arrivato mai tanto inanti che se ne possa cavare tanto legname da far manico a una zappa, perché il salvatico è tutta buscaglia minuta, et il domestico sono qualche pochi arboretti di fichi che piantano quando fanno qualche lavor novo per metter vigna li quali per quanto ne ho visto non ve ne è alcuno che sia tanto grande che una persona senza montare sopra non li possa racogliere tutti quali fanno poi certi fichi della grossesa di un pero moscatello et anche detti alberi hanno poca durata. Nel resto questa gente è di travaglio assai et non perdonano a fatica per potersi governare, et in quelli terreni inculti che dicono che vi sono che alla fine non sono altro che montagne de sassi piene de buschi che nascono in qualche poca terra che è tra un sasso e l’altro se ne servano per seminar quel poco di grano et orzo che è il loro sostentamento di una parte del anno, e questo lo fanno anche con gran stento, et chi havesse occasione di farlo fare a giornate li costeria il grano più di 40 libre il staggio, poiché lo fanno in questa maniera. Hanno diviso l’Isola in otto o dieci vallate, e poi quando hanno risoluto che valle per quel anno deveno travagliare vi vanno con le restaglie a tagliare tutta la buscaglia, poi bisogna aspetare che detta buscaglia sia secca, quando è secca li danno il foco e poi bisogna aspetare che li piova sopra, quando è piovuto vanno con le zappe raschiando in quella cenere et qualche poca terra che resta fra quelli scogli dove poi seminano il grano, et fra il grano mescolano anche delle lentigie le quali racolgono un poco prima del grano, e poi l’anno apresso vi mettono l’ordio e così vanno girando di mano in mano a segno che in otto , o, dieci anni rivoltano l’Isola tutta sottosopra, e dove mancano di lavorare subito vi cresce di novo la buscaglia, et fuori di quella parte in quale hanno seminato quel anno quale serrano con chiudende nel resto vi tengono li suoi bestiami a pascere quali stanno sempre alla campagna con havendo altra commodità di poterli tenere. E alle volte li lochi dove vanno a travagliare sono tanto lontani che la mettà del giorno passa in andare, e, venire perché bisogna che facino quatro, o, cinque miglia alla mattina quando vi vanno sempre montando e calando, et strade le più perfide che mai habbi visto, et altretanto bisogna che facino alla sera per ritornare a casa. Si che tra le facende del grano e quelle della vigna sono sempre in moto che va fatto non aspetta l’altro, et per li tempi cattivi alle volte stentano a suplire. Il terreno domestico poi dove sono le vigne consiste in una gran quantità di piazzole come dicono essi, le quali fanno anche con gran fatica perché quando vogliono far una di dette piazzole si mettono con pali di ferro e piconi intorno a questi sassi dove li pare che fra essi vi possa esser qualche poca terra e poi del li sassi che cavano ne fanno un ridotto alla meglio nel quale riducono quella poca terra che vi hanno trovato con qualche poca altra che vanno raschiando per quelli contorni e poi vi mettono sei, o, otto piedi di vigna e questa si chiama una piazzola, a segno che un barrile di vino si raccoglie in dieci piazzole una a levante e l’altra a ponente, et ancora è di bisogno quasi ogn’anno andarle agiutando con agiongerli terreno altrimenti le vigne vi fariano poca durata se bene a tutti i modi sono necessitati a rinovarla spesso perche dava poco, e, poco cresce. In questi lavori novi come ho detto di sopra solevano per il passato metter qualche albero ma adesso non lo fanno più anzi se ve ne sono li levano perché non ci cavano niente, e se pur fanno qualche frutto la manco parte è del patrone et solo ne gode chi è il primo a pigliarli, e questo avviene perché la primavera è la staggione che patiscono più stante che una raccolta non è bastante per aspetar l’altra a segno che tutto quello che ponno mangiar in erba non lassano matturare. Il simile fanno del grano, orzo, lentigie, e uva perché è più quella che mangiano che quella che pestano e tanto fariano delle amandole se ve ne fusse che se le mangeriano tutte verde perché per il gran patimento in che sono in questa stagione come ho detto di sopra mangiano quanti erbaggi ponno trovare fra queste montagne. E stante questo vengo a concludere che VV.SS. Serenissime ponno avansar la spesa in far nova provvigione di detti alberi perché non vi è l’humore di questa gente e solo credono in quelle cose che li bisognano per il loro governo di tutto l’anno et quando li inclinassero ogn’un di loro haria commodità di poter piantare 25 amandole senza spesa della Camera et il farglielo fare per forza è un perdere il tempo perché non ne teneriano conto e seguirebbe delle amandole quello è seguito delle olive che di ordine di VV.SS. Serenissime piantorno li anni passati che non se ne trova pur un albero.

Le amandole mandate non si sono poi più piantate perché il ripartirle che ogn’un ne semini ne suoi terreni la maggior parte se le haraino mangiate e per questo si era risoluto di farne un aere in commune e poi repartir li alberi quando fussero da trapiantare, ma perché in quelle piazzole che sono lagiù al punto dove pare che vi sia un poco miglior terreno è un loco troppo in boca a passageri che per questo effetto sono quasi forzati di abbandona le vigne che vi sono perché di quella ne raccolgono poca e tutto il giorno bisogna contendere.

Si era risoluto di pigliar l’horto del prete per esser il solo che paresse più a proposito, ma havuto poi considerazione che bisognava pagarli cinque scudi di estimo per le cose che vi sono, e poi almeno sette, o, otto scudi l’anno di pigione sino a tanto che li alberi fussero da trapiantare non mi son risoluto di far per forza entrare questa povera communità in questa spesa tanto più che fu messo in considerazione che per far questo era passata la stagione non essendosi havute le amandole solo in fin di marzo che è stato doppo 20 giorni che le mandarno, e circa la spesa tanto bisognava che la Communità la facesse quando bene si fusse preso la piazza d’uno particolare poiché qua si stima più il terreno che quello delli horti di Bisagno.

Li capperi si sono repartiti et ogn’uno ha piantato la sua parte, e può essere che facino bene perché qua ve ne sono diversi costì che ne fanno assai ma ne anche li racolgono; questo è quanto m’occorre dire in questo particolare a VV.SS. Serenissime alle quali per fine facio humile riverenza».[3]

Ma i Magistrati non si scoraggiarono e insistettero, nella speranza di sviluppare la coltura dell’olivo. Perciò nel 1687 chiesero al Capitano e Commissario Gio Batta Federici di verificare se nell’isola vi fossero degli olivastri selvatici che potessero essere innestati. Il Commissario rispose con questa nota:

«Serenissimi Signori

In esecutione di quanto VV.SS. Serenissime mi hanno ordinato nel far diligenza se qui vi sono alberi di alivastri, che perciò brevemente Li daro relatione di quanto mi hanno comandato. Primieramente Le dirò esservi molti di questi olivastri da inserire, e che vanno a mal uso, questi sono nel tereno publico e non de particolari, risalvato però un ombria nel loco di Santo Stefano, che pare resti dedicato alla chiesa non sapendo però e non havendolo potuto sapere l’origine. Oltre a detti olivastri vi sono molte campagne, che sarebbero adatate a detto effetto, ma qui non si ne curano, non ostante che quelle poche vi sono se fussero coltivate piu di quelle sono, renderebbono maggior frutto di quanto cavano. Qui non vi è persona alcuna che sappi ne sia pratica di simil coltivatione, che quanto io posso dire, ma solo le dirò che quando si introducesse questo frutto in questo Loco sarebbe non solo di utile a questi populi che altro non hanno per loro aspettativa che solo la rendita dal mare.

Ma ben si alla Camera Eccellentissima e a VV.SS. Serenissime umilmente mi inchino»[4]

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Oggi – Olivi e olivastri nelle piazzole capraiesi

I Magistrati di Corsica si preoccuparono anche della diminuzione della produzione di vino. In effetti, si hanno questi dati per il periodo qui preso in esame:

ANNO QUANTITÀ ETTOLITRI
     
1504 530 3140
     
1540 180 1067
     
1577 +100 botti 592
     
1596 90 botti 533
     
1600 120 botti 711
     
1602 60 botti 355
     
1604 80 botti 474
     
1669 893 barili e 9 zuche 706
     

Nel 1694, per incentivare la coltura della vite il Magistrato di Corsica impose ad Agostino de Leonardi, al quale era stato concesso il capato della Torre dello Zenobito, di piantare nel periodo della sua carica cinquecento piante di vite.[5]

Nel 1714 a causa della poca cura che i capraiesi dedicavano agli olivi e in genere agli alberi da frutto, i Magistrati furono costretti ad emettere un severo bando, che, tuttavia, come scrisse il Commissario e Capitano Paolo de Benedetti, non sortì alcun effetto. Oltre un inasprimento delle pene il Commissario, al fine di incentivare la piantagione di ulivi suggerì di obbligare i capraiesi, sorteggiati per ricoprire la carica di soldati, a mettere a dimora nuove piante nei loro terreni:

«Serenissimi Signori

La pia mente di VV.SS. Serenissime è sempre stata e sempre sarà che questi Isolani di Capraia debbano piantare ogn’anno alberi fruttiferi ne terreni di quest’Isola, e particolarmente alberi d’olive che veramente questi sono terreni a proposito per l’olivi che l’istesso scoglio li produce, e si come VV.SS. Serenissime sino dell’anno 1714 providero con loro Decreto se alcuno di questi Isolani ardisse di tagliare alberi d’olive restavano incorso in pena della Galea, ma si come i medemi non hanno temuto il Bando sudetto avendo continuato a tagliare l’alberi d’olivi <> per mezzo delle donne, et altri forastieri per vendere le legne, stimarei più accertato che in avenire VV.SS. Serenissime provedessero d’altra pena, che sarà a medemi più rigorosa, che chi taglierà alberi fruttiferi particolarmente d’olivi siano essiliati da quest’Isola, e che li Padri del Commune pro tempore di quest’Isola debbano dar notitia alla Corte del tagliamento delli detti alberi per poter venire in cognitione de delinquenti sotto quelle pene ben viste a VV.SS. Serenissime, che così a questi Isolani servirà più di tema; come altresi ordinare che tutti quelli saranno estratti per soldati debbano piantare delle piante d’olivi etiam nelle loro piazzole che col tempo si renderà quest’Isola fruttifera, e quando li medemi soldati no avessero la commodità di far la compra delle piante li Magnifici Commissarij pro tempore debbano farle l’imprestito da trattenersele sopra delle loro paghe, che così saranno più osservanti all’ordini di VV.SS. Serenissime, e mi è parso bene di parteciparne VV.SS. Serenissime  ad effetto non seguitino a devastare, e con tutta maggior osservanza Le faccio umilissima riverenza».[6]

Roberto Moresco                                                                14 ottobre, 2011

[1] R. Moresco, Capraia sotto il governo delle Compere di San Giorgio (1506-1562), Atti della Società Ligure di Storia Patria, XLVII, Fasc. I, 2007, pp. 392-393, riprodotta anche in questo sito.

[2] I Magistrati di Corsica erano quattro e soprintendevano alla gestione della Corsica e di Capraia. Uno di loro curava le coltivazioni nelle due isole.

[3] ASG, Corsica, n. 557, lettera del Commissario Nicolò Raggio al Doge e ai Magistrati di Corsica della Repubblica di Genova del 6 apr. 1628.

[4] ASG, Corsica, n. 613, lettera del Commissario Gio Batta Federici ai Magistrati di Corsica del 10 mar. 1687.

[5] ASG, Corsica, 464, lettera  dei Magistrato di Corsica al Commissario di Capraia Domenico Maria Gallo del 6 feb. 1696: «… Fu l’anno 1694 conceduto il Capato della Torre del Senopito ad Agostino de Leonardi per un governo con obligo di lasciare ogni mese Lire quattro sopra il Stipendio in sconto del suo debito e di piantare piedi cinquecento di vigna fra il termine di d.o biennio.…».

[6] ASG, Corsica, 640, lettera del Commissario Paolo de Benedetti ai Magistrati di Corsica del 21 dic. 1724.

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