Un ricordo di Padre Nino

Il 13 maggio si é spento padre Nino.

Foto Nino copy

Una grande perdita per molti capraiesi e non, che ne hanno apprezzato, durante il suo soggiorno a Capraia come parroco, le sue straordinarie doti di spiritualità e di profonda umanità. Rimarrà nella storia dell’isola come il simbolo di ciò che, a volte, gli uomini impediscono di realizzare: il sogno di un eremo, centro di spiritualità, nella casa in rovina nella baia della Mortola.

Isola di Capraia: La Mortola

La Mortola: un sogno non realizzato (Foto F. Guidi)

Gaetano (Nino) Barile è nato a Torrazza Coste (PV) il 5 marzo 1951. Prima di entrare in monastero ha conseguito la laurea in Lettere Moderne presso l’Università Cattolica di Milano. Ha avuto diverse esperienze lavorative, tra cui l’insegnamento in un Liceo salesiano di Asti. È entrato a Casamari (FR) nel 1983. È stato ordinato sacerdote nella medesima Abbazia il 26 dicembre 1992. Dal 1994, con i suoi confratelli padre Marco e Francesco, ha iniziato un percorso alla ricerca di un luogo dove poter vivere una vita più ritirata e più radicata nel silenzio e nella preghiera. Nel 2002 arriva  a Capraia e, un anno dopo, il Vescovo di Livorno Mons. Diego Coletti lo immette nella carica di parrocco dell’isola durante una solenne celebrazione.  A Capraia resta fino al 2007. Da quell’anno fino alla sua morte, p. Nino ha vissuto in un piccolo eremo in Casentino, in provincia di Arezzo e in Diocesi di Fiesole. Il luogo vicino a cui si trova l’eremo di chiama Borgo alla Collina, paese nel cui cimitero ora il suo corpo riposa.

Di lui un ricordo di Folco Giusti:

Quando, inattesi, piombarono in Capraia – lui, Nino, il maestro monaco e sacerdote, Marco, il discepolo novizio, Francesco, il converso – sembravano usciti non dalla nave, ma dalle brume del tempo, da uno dei tanti inestricabili macchioni che coprono i colli di Capraia, quasi fossero gli ultimi sopravvissuti dei “viri lucifugi” che, secondo Claudio Rutilio Namaziano, si erano ritirati a vivere in solitudine, penitenza e preghiera nella Capraia del quinto secolo dopo Cristo.  Ma se i primi monaci cristiani si erano rifugiati a Capraia pronti “per paura del male a far male a se stessi”, a vivere, cioè, di misere cose pur di scappare dal mondo, loro – Nino, Francesco e Marco – erano lì pronti sì a vivere di misere cose, ma solo per amore del bene e per il bene dell’umanità tutta, quella capraiese in primis.
E fecero subito effetto.  Vestiti di semplici cocolle grigie, allampanati come patissero la fame da sempre, senza un quattrino nemmeno per scaldare le quattro stanze della misera canonica dove avevano trovato rifugio, seppero subito attrarre a sé e in… chiesa.  Quasi un miracolo, dopo tanti anni di Sante Messe sbrigative, di altrettanto sbrigative prediche e di cerimonie più folcloristiche che religiose.
Benedetto il vescovo di Livorno di allora che, nel sostenere la loro impresa, aveva finalmente capito come Capraia non potesse essere abbandonata nelle mani incerte di preti volanti, messi lì in prestito e incapaci di rivestire un ruolo di riferimento per il popolo dell’isola.
Nino, in particolare, con la sua amabilità, ma soprattutto con la sua profondità di fede, divenne presto un prezioso missionario dell’amore di Cristo: non c’era anima in pena che non venisse ascoltata e ristorata; non c’era bambino che non ricevesse da lui una carezza e, finalmente, un insegnamento per un corretto approccio ad una vita cristiana.  Aiutato da Marco, in breve, riuscì a far tornare all’altare i chierichetti, i bambini e le bambine a cantare, i capraiesi e i turisti, in numero mai visto prima, a partecipare alle Sante Messe, rapiti dalle sue intense omelie.  Nonostante una malattia tra le più serie accettata come un dono, vissuta e finalmente vinta non senza molto soffrire, resistette e operò senza risparmiarsi.  Riuscì persino a creare un giornale, “L’isola di Capraia.  Notiziario della Parrocchia del S. Cuore di Gesù e S. Nicola”, per dar voce alla comunità e per dar vigore ad un gruppo di laici che presto si era coagulato attorno alla sua piccola comunità monastica.
E fu bello.  Troppo bello per durare.  Dopo soli tre anni, frustrato dal vedere contrastato il sogno di crearsi un eremo in uno degli edifici abbandonati dal carcere, un’isola nell’isola dove poter mettere in atto compiutamente una vita monastica, Nino gettò la spugna e, con i suoi, lasciò Capraia.  L’egoismo di pochi aveva vinto.  Capraia, persa un’opportunità preziosa, tornò all’incuria della Curia, ai preti volanti, alle Sante Messe quasi deserte, alle cerimonie più folcloristiche che religiose.
Fu rabbia da parte mia: nel tentativo di strappargli un ripensamento, ingenerosamente lo accusai di egoismo, lo chiamai in contraddizione con il suo sacerdozio, ma… ingenerosamente.  Sapevo bene come la sua vocazione monastica pretendesse quello che, in cambio della sua opera di parroco, era nei suoi sogni: un minimo spazio sì, ma riparato almeno dal chiasso del pur piccolo mondo di Capraia.
Negli anni, sono rimasto in contatto con lui e con Marco, ho seguito con affetto il loro pellegrinare in cerca dell’eremo adatto.  Finalmente trovato, sembrava che per Nino fosse tutto bene compiuto.
Ma… l’umana natura era in agguato.  Un altro terribile male, anche questo accettato e vissuto come un dono, lo ha presto stremato e ucciso.  Con Nino, ci ha tolto un fratello, un monaco e un sacerdote prezioso.
Come molti, anch’io ho pregato per lui, convinto come sono che nemmeno il più piccolo segno di devozione, venuto che fosse anche da parte di un indegno, passi inosservato in Cielo.  Ma il Cielo, questa volta, non ha dato riscontro.  I nostri disegni non sono quelli del Signore: lo so.  Ma… come non chiedersi perché i Suoi disegni sono diversi dai nostri anche quando dovrebbero coincidere?
Una domanda che non ha risposta se non nella fede.  Nino non è morto: vive in cielo con il Cristo risorto e continua la sua missione.  Ora è più libero e forte: prega e intercede per noi.  Prega e intercede senz’altro per la sua, la nostra, mai dimenticata e sempre amata Capraia.

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