Già dal 1539 il Banco di San Giorgio cercò di sviluppare l’agricoltura in Corsica affinché l’isola potesse produrre sia quanto era necessario al sostentamento degli abitanti, sia del grano per il rifornimento della città di Genova. Questa politica continuò anche dopo il 1562 quando la Repubblica di Genova prese possesso della Corsica e di Capraia.
Nella prima metà del Cinquecento, la produzione agricola di Capraia era basata essenzialmente sulla coltivazione della vite e la produzione di vino: nel 1504, l’isola produceva 530 botti di vino pari a 3140 ettolitri. Nel 1540 scese a 180 botti pari a 1067 ettolitri a causa probabilmente dei corsari barbareschi i quali, nel corso delle loro incursioni a terra, erano soliti distruggere le vigne. Il vino veniva in gran parte venduto in terraferma, Genova e Maremma, in cambio di grano e orzo la cui produzione nell’isola era molto scarsa e non sufficiente per i bisogni locali.[1] Questa situazione si mantenne inalterata fino a tutto il Seicento, anche se la produzione di vino calò ulteriormente perché gli uomini si dedicarono sempre di più alla pesca e alla navigazione con le loro gondole, mentre la coltivazione dei terreni divenne compito precipuo delle donne. Sovente, i Capraiesi furono costretti a ricorrere a Genova per chiedere invio di grano, impegnandosi a pagarlo con il ricavato della vendita del vino dell’anno successivo. In molti casi, tuttavia, Genova si trovo costretta a rinunciare al risarcimento promesso. Per ovviare in parte a questa situazione i Magistrati di Corsica[2] cercarono di incentivare nell’isola altre colture: olivo, mandorlo, cappero, e ciliegio.
Su uno di questi tentativi ci è rimasta un’interessante relazione del Commissario e Capitano di Capraia, Nicolò Raggio, scritta nell’aprile del 1626. La relazione fornisce una chiara descrizione del modo in cui i Capraiesi ricavavano, in luoghi spesso scoscesi, i piccoli appezzamenti di terreno da coltivare, detti «piazzole», piazzole che ancora oggi si possono scorgere sparse per l’isola, anche se ormai invase dalla macchia mediterranea che lascia intravedere solo i muri a secco che le delimitano. Per sfruttare la poca terra disponibile i Capraiesi avevano diviso l’isola in vallate che venivano coltivate ciclicamente e che venivano liberate dalla macchia mediterranea ricorrendo a degli incendi controllati. Questa tradizione si è mantenuta nell’isola fino agli anni ’50 dello scorso secolo, per facilitare la ricrescita dell’erba e per consentire, così, il pascolo dei pochi capi di bestiame lasciati allo stato brado all’interno di aree ben delimitate, dette «chiudende», isolate rispetto alle vigne, e ai terreni coltivati.
Ma lasciamo la parola a Niccolò Raggio:
«Serenissimo et Eccellentissimi Signori
Con la loro de 10 del passato ho anche ricevuto le amandole mandate insieme con li maggioli de cappari, e subito feci radunare questi huomini, e li feci intendere come per suo beneficio VV.SSS. Sererenissime haviano visto volentieri che si introducessero in quest’Isola simili frutti; doppo diverse cose che furono dette si concluse più per agradire la buona volontà di VV.SS. Serenissime che per altro che si dovessero seminare, nel resto tutti furono di parere che era opera gettata al vento poiché di già se ne è fatto l’esperienza non tanto di amandole quanto di noci, castagne, cerase, et altri frutti, et ultimamente anche di ordine di VV.SSS. Serenissime di olive, e niente è mai potuto riuscire. La causa è che non vi è terreno solo sassi, et questa Isola è soggetta assai a tutti li venti che tutto il giorno la tormentano hora per un verso et hora per l’altro; e Dio voglia che quest’anno non habbino di già vendemiato poiché da tre giorni in quà è stato un gregale tanto terribile che ha brusato tutta la vigna, a segno che li alberi non vi ponno crescere e questo lo stimo per vero stante che in tutto questo loco non si trova albero alcuno ne domestico ne salvatico che sia arrivato mai tanto inanti che se ne possa cavare tanto legname da far manico a una zappa, perché il salvatico è tutta buscaglia minuta, et il domestico sono qualche pochi arboretti di fichi che piantano quando fanno qualche lavor novo per metter vigna li quali per quanto ne ho visto non ve ne è alcuno che sia tanto grande che una persona senza montare sopra non li possa racogliere tutti quali fanno poi certi fichi della grossesa di un pero moscatello et anche detti alberi hanno poca durata. Nel resto questa gente è di travaglio assai et non perdonano a fatica per potersi governare, et in quelli terreni inculti che dicono che vi sono che alla fine non sono altro che montagne de sassi piene de buschi che nascono in qualche poca terra che è tra un sasso e l’altro se ne servano per seminar quel poco di grano et orzo che è il loro sostentamento di una parte del anno, e questo lo fanno anche con gran stento, et chi havesse occasione di farlo fare a giornate li costeria il grano più di 40 libre il staggio, poiché lo fanno in questa maniera. Hanno diviso l’Isola in otto o dieci vallate, e poi quando hanno risoluto che valle per quel anno deveno travagliare vi vanno con le restaglie a tagliare tutta la buscaglia, poi bisogna aspetare che detta buscaglia sia secca, quando è secca li danno il foco e poi bisogna aspetare che li piova sopra, quando è piovuto vanno con le zappe raschiando in quella cenere et qualche poca terra che resta fra quelli scogli dove poi seminano il grano, et fra il grano mescolano anche delle lentigie le quali racolgono un poco prima del grano, e poi l’anno apresso vi mettono l’ordio e così vanno girando di mano in mano a segno che in otto , o, dieci anni rivoltano l’Isola tutta sottosopra, e dove mancano di lavorare subito vi cresce di novo la buscaglia, et fuori di quella parte in quale hanno seminato quel anno quale serrano con chiudende nel resto vi tengono li suoi bestiami a pascere quali stanno sempre alla campagna con havendo altra commodità di poterli tenere. E alle volte li lochi dove vanno a travagliare sono tanto lontani che la mettà del giorno passa in andare, e, venire perché bisogna che facino quatro, o, cinque miglia alla mattina quando vi vanno sempre montando e calando, et strade le più perfide che mai habbi visto, et altretanto bisogna che facino alla sera per ritornare a casa. Si che tra le facende del grano e quelle della vigna sono sempre in moto che va fatto non aspetta l’altro, et per li tempi cattivi alle volte stentano a suplire. Il terreno domestico poi dove sono le vigne consiste in una gran quantità di piazzole come dicono essi, le quali fanno anche con gran fatica perché quando vogliono far una di dette piazzole si mettono con pali di ferro e piconi intorno a questi sassi dove li pare che fra essi vi possa esser qualche poca terra e poi del li sassi che cavano ne fanno un ridotto alla meglio nel quale riducono quella poca terra che vi hanno trovato con qualche poca altra che vanno raschiando per quelli contorni e poi vi mettono sei, o, otto piedi di vigna e questa si chiama una piazzola, a segno che un barrile di vino si raccoglie in dieci piazzole una a levante e l’altra a ponente, et ancora è di bisogno quasi ogn’anno andarle agiutando con agiongerli terreno altrimenti le vigne vi fariano poca durata se bene a tutti i modi sono necessitati a rinovarla spesso perche dava poco, e, poco cresce. In questi lavori novi come ho detto di sopra solevano per il passato metter qualche albero ma adesso non lo fanno più anzi se ve ne sono li levano perché non ci cavano niente, e se pur fanno qualche frutto la manco parte è del patrone et solo ne gode chi è il primo a pigliarli, e questo avviene perché la primavera è la staggione che patiscono più stante che una raccolta non è bastante per aspetar l’altra a segno che tutto quello che ponno mangiar in erba non lassano matturare. Il simile fanno del grano, orzo, lentigie, e uva perché è più quella che mangiano che quella che pestano e tanto fariano delle amandole se ve ne fusse che se le mangeriano tutte verde perché per il gran patimento in che sono in questa stagione come ho detto di sopra mangiano quanti erbaggi ponno trovare fra queste montagne. E stante questo vengo a concludere che VV.SS. Serenissime ponno avansar la spesa in far nova provvigione di detti alberi perché non vi è l’humore di questa gente e solo credono in quelle cose che li bisognano per il loro governo di tutto l’anno et quando li inclinassero ogn’un di loro haria commodità di poter piantare 25 amandole senza spesa della Camera et il farglielo fare per forza è un perdere il tempo perché non ne teneriano conto e seguirebbe delle amandole quello è seguito delle olive che di ordine di VV.SS. Serenissime piantorno li anni passati che non se ne trova pur un albero.
Le amandole mandate non si sono poi più piantate perché il ripartirle che ogn’un ne semini ne suoi terreni la maggior parte se le haraino mangiate e per questo si era risoluto di farne un aere in commune e poi repartir li alberi quando fussero da trapiantare, ma perché in quelle piazzole che sono lagiù al punto dove pare che vi sia un poco miglior terreno è un loco troppo in boca a passageri che per questo effetto sono quasi forzati di abbandona le vigne che vi sono perché di quella ne raccolgono poca e tutto il giorno bisogna contendere.
Si era risoluto di pigliar l’horto del prete per esser il solo che paresse più a proposito, ma havuto poi considerazione che bisognava pagarli cinque scudi di estimo per le cose che vi sono, e poi almeno sette, o, otto scudi l’anno di pigione sino a tanto che li alberi fussero da trapiantare non mi son risoluto di far per forza entrare questa povera communità in questa spesa tanto più che fu messo in considerazione che per far questo era passata la stagione non essendosi havute le amandole solo in fin di marzo che è stato doppo 20 giorni che le mandarno, e circa la spesa tanto bisognava che la Communità la facesse quando bene si fusse preso la piazza d’uno particolare poiché qua si stima più il terreno che quello delli horti di Bisagno.
Li capperi si sono repartiti et ogn’uno ha piantato la sua parte, e può essere che facino bene perché qua ve ne sono diversi costì che ne fanno assai ma ne anche li racolgono; questo è quanto m’occorre dire in questo particolare a VV.SS. Serenissime alle quali per fine facio humile riverenza».[3]
Ma i Magistrati non si scoraggiarono e insistettero, nella speranza di sviluppare la coltura dell’olivo. Perciò nel 1687 chiesero al Capitano e Commissario Gio Batta Federici di verificare se nell’isola vi fossero degli olivastri selvatici che potessero essere innestati. Il Commissario rispose con questa nota:
«Serenissimi Signori
In esecutione di quanto VV.SS. Serenissime mi hanno ordinato nel far diligenza se qui vi sono alberi di alivastri, che perciò brevemente Li daro relatione di quanto mi hanno comandato. Primieramente Le dirò esservi molti di questi olivastri da inserire, e che vanno a mal uso, questi sono nel tereno publico e non de particolari, risalvato però un ombria nel loco di Santo Stefano, che pare resti dedicato alla chiesa non sapendo però e non havendolo potuto sapere l’origine. Oltre a detti olivastri vi sono molte campagne, che sarebbero adatate a detto effetto, ma qui non si ne curano, non ostante che quelle poche vi sono se fussero coltivate piu di quelle sono, renderebbono maggior frutto di quanto cavano. Qui non vi è persona alcuna che sappi ne sia pratica di simil coltivatione, che quanto io posso dire, ma solo le dirò che quando si introducesse questo frutto in questo Loco sarebbe non solo di utile a questi populi che altro non hanno per loro aspettativa che solo la rendita dal mare.
Ma ben si alla Camera Eccellentissima e a VV.SS. Serenissime umilmente mi inchino»[4]
Oggi – Olivi e olivastri nelle piazzole capraiesi
I Magistrati di Corsica si preoccuparono anche della diminuzione della produzione di vino. In effetti, si hanno questi dati per il periodo qui preso in esame:
ANNO | QUANTITÀ | ETTOLITRI |
1504 | 530 | 3140 |
1540 | 180 | 1067 |
1577 | +100 botti | 592 |
1596 | 90 botti | 533 |
1600 | 120 botti | 711 |
1602 | 60 botti | 355 |
1604 | 80 botti | 474 |
1669 | 893 barili e 9 zuche | 706 |
Nel 1694, per incentivare la coltura della vite il Magistrato di Corsica impose ad Agostino de Leonardi, al quale era stato concesso il capato della Torre dello Zenobito, di piantare nel periodo della sua carica cinquecento piante di vite.[5]
Nel 1714 a causa della poca cura che i capraiesi dedicavano agli olivi e in genere agli alberi da frutto, i Magistrati furono costretti ad emettere un severo bando, che, tuttavia, come scrisse il Commissario e Capitano Paolo de Benedetti, non sortì alcun effetto. Oltre un inasprimento delle pene il Commissario, al fine di incentivare la piantagione di ulivi suggerì di obbligare i capraiesi, sorteggiati per ricoprire la carica di soldati, a mettere a dimora nuove piante nei loro terreni:
«Serenissimi Signori
La pia mente di VV.SS. Serenissime è sempre stata e sempre sarà che questi Isolani di Capraia debbano piantare ogn’anno alberi fruttiferi ne terreni di quest’Isola, e particolarmente alberi d’olive che veramente questi sono terreni a proposito per l’olivi che l’istesso scoglio li produce, e si come VV.SS. Serenissime sino dell’anno 1714 providero con loro Decreto se alcuno di questi Isolani ardisse di tagliare alberi d’olive restavano incorso in pena della Galea, ma si come i medemi non hanno temuto il Bando sudetto avendo continuato a tagliare l’alberi d’olivi <…> per mezzo delle donne, et altri forastieri per vendere le legne, stimarei più accertato che in avenire VV.SS. Serenissime provedessero d’altra pena, che sarà a medemi più rigorosa, che chi taglierà alberi fruttiferi particolarmente d’olivi siano essiliati da quest’Isola, e che li Padri del Commune pro tempore di quest’Isola debbano dar notitia alla Corte del tagliamento delli detti alberi per poter venire in cognitione de delinquenti sotto quelle pene ben viste a VV.SS. Serenissime, che così a questi Isolani servirà più di tema; come altresi ordinare che tutti quelli saranno estratti per soldati debbano piantare delle piante d’olivi etiam nelle loro piazzole che col tempo si renderà quest’Isola fruttifera, e quando li medemi soldati no avessero la commodità di far la compra delle piante li Magnifici Commissarij pro tempore debbano farle l’imprestito da trattenersele sopra delle loro paghe, che così saranno più osservanti all’ordini di VV.SS. Serenissime, e mi è parso bene di parteciparne VV.SS. Serenissime ad effetto non seguitino a devastare, e con tutta maggior osservanza Le faccio umilissima riverenza».[6]
Roberto Moresco 14 ottobre, 2011
[1] R. Moresco, Capraia sotto il governo delle Compere di San Giorgio (1506-1562), Atti della Società Ligure di Storia Patria, XLVII, Fasc. I, 2007, pp. 392-393, riprodotta anche in questo sito.
[2] I Magistrati di Corsica erano quattro e soprintendevano alla gestione della Corsica e di Capraia. Uno di loro curava le coltivazioni nelle due isole.
[3] ASG, Corsica, n. 557, lettera del Commissario Nicolò Raggio al Doge e ai Magistrati di Corsica della Repubblica di Genova del 6 apr. 1628.
[4] ASG, Corsica, n. 613, lettera del Commissario Gio Batta Federici ai Magistrati di Corsica del 10 mar. 1687.
[5] ASG, Corsica, 464, lettera dei Magistrato di Corsica al Commissario di Capraia Domenico Maria Gallo del 6 feb. 1696: «… Fu l’anno 1694 conceduto il Capato della Torre del Senopito ad Agostino de Leonardi per un governo con obligo di lasciare ogni mese Lire quattro sopra il Stipendio in sconto del suo debito e di piantare piedi cinquecento di vigna fra il termine di d.o biennio.…».
[6] ASG, Corsica, 640, lettera del Commissario Paolo de Benedetti ai Magistrati di Corsica del 21 dic. 1724.