Il 9 maggio si è spento a Genova Edgardo “Dino” Billia.
Nato nel 1943 a Finale Ligure da madre capraiese – una Paoli – è sempre vissuto a Genova dove si è laureato in ingegneria elettrotecnica. Entrato nella Società Ansaldo ha lavorato alla progettazione ed installazione di centrali elettriche. Apprezzato per le sue capacità, veniva inviato in giro per il mondo ed in uno dei suoi soggiorni di lavoro in Messico fu coinvolto in un incidente stradale che gli lasciò gravi conseguenze. Era innamorato di Capraia e, anche se costretto su una sedia a rotelle, cercava quando poteva di farsi portare a Capraia. Molti lo ricordano quando alcuni anni fa si fece portare dalla barca di Enzino a fare il bagno in una delle cale dell’isola. Un vero capraiese.
Ecco come lo ricorda l’amico Folco Giusti:
In memoria di Edgardo “Dino” Billia
“Ha finito di soffrire”. Questa frase consolatoria che siamo soliti scambiarci quando muore un nostro caro che ha a lungo tribolato nella malattia e nel dolore, oggi, non mi consola affatto. No, non mi consola: mondo infame!
Dino è morto, ma non voleva morire: ne sono certo. Nonostante i suoi quaranta e forse più anni di immobilità, di sofferenze lancinanti, di umiliazioni, è riuscito a conservare fin quasi all’ultimo la sua voglia di godere del poco che le sue condizioni ancora potevano consentirgli: semplicemente vivere, continuare a gustare un buon piatto, continuare a provare qualche emozione, continuare ad avere attorno a sé l’affetto degli amici, continuare a viaggiare con la fantasia verso Capraia, la sua isola tanto amata. Un misero compenso, ma… a lui bastava.
“Come stai?” Domanda d’obbligo, quando lo si chiamava al telefono e d’obbligo era la sua risposta: “Male, grazie, come sempre, ma… parliamo d’altro”. Quante volte questo rito e quante volte, invece di lasciarti la bocca amara, la telefonata finiva con il sorriso sulle labbra: mai un lamento, mai un imprecazione verso la sorte o verso il Cielo. Solo serenità che, di riflesso, invadeva anche chi con lui parlava e che, come per grazia, era portato inevitabilmente a sentire ridicole le proprie eventuali pene. Un balsamo, il caro Dino, un balsamo per noi, non noi per lui. Lui avrà anche finito di soffrire, ma noi no e non ci sarà più il suo balsamo a darci forza, a darci un sorriso.
Non ho mai affrontato con lui il problema dell’Aldilà: mi sembrava infame farlo. Non ci credessi, ora ci crederei. Come non sperare per lui una ricompensa, una nuova vita, nuove gambe e braccia per una nuotata in una cala di Capraia, per una scalata al Semaforo? Forse il Paradiso non è questo, ma so che lui così l’avrebbe voluto e prego Dio che così, almeno per un po’, a lui lo conceda.